RiFilm Festival
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RiFilm è una rassegna cinematografica aperta a tuttə con lo scopo di valorizzare le forme espressive e artistiche dell’audiovisivo.
RiFilm è organizzato dall’associazione di promozione sociale con sede a Bologna “Un altro mondo è possibile".
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RiFilm è una rassegna aperta a tutti con lo scopo di valorizzare le forme espressive e artistiche dell’audiovisivo, favorendo la circolazione di opere e le opportunità di contatto tra pubblico, giovani registi e professionisti del settore.

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Diamo il via alla rubrica settimanale di RiFilm con un primo approfondimento di Lorenzo D'Alessandro!
🎬È STATA LA MANO DI NAPOLI

🖖Approfondimento a cura di Lorenzo D’Alessandro

Film: È stata la mano di Dio
Regista: Paolo Sorrentino

L'ultimo film di Paolo Sorrentino è tutto quello che non fu all’epoca La Grande Bellezza (2013). Dove nel film romano abbondavano i formalismi, gli spettacolari movimenti di macchina sui monumenti della capitale, e un apparente intimismo che però mal celava il vuoto di fondo, qui troviamo un'opera che dice molto e mostra solo il necessario. Certo, si potrebbe obbiettare che il girovagare del primo sia voluto, per mostrare la vacuità della bella vita romana, ma il punto è proprio questo: anche il film non è esente dalla stessa critica. Come spiegò Philippe Ridet sull’ “Internazionale”, la recezione (in Italia e all’estero), di La Grande Bellezza mostra come la decadenza della città eterna, venga quasi applaudita, ancorandosi a una bellezza che sta svanendo senza chiedersene il motivo. Gli Oscar dal canto loro premiarono, come succede spesso, la superficialità, la nostalgia per un'immagine stereotipata dell’Italia che ricorda vagamente La Dolce Vita (1960), di Fellini. Le frasi ad effetto non bastano a dare profondità, tantomeno quella della santa: “Sa perché mangio solo radici? […] Perché le radici sono importanti”. Ma le vere radici di Paolo Sorrentino, le possiamo vedere in È Stata La Mano Di Dio. Credo che anche se non fosse stato un film autobiografico, questo sarebbe comunque il più personale del regista. Perché? Perché parla della città dove è nato e cresciuto, ma soprattutto perché lo fa meglio di molti altri. Sorrentino non risparmia un’inquadratura, una battuta, senza dover ricorrere al minimalismo, si ha l’impressione di vedere Napoli nella sua forma più autentica ed essenziale. In un panorama mediatico dove la sua rappresentazione si alterna tra un grigio campo di battaglia tra bande di mafiosi, e una ridicolaggine forzata che scade nello stereotipo, qui la città parla allo spettatore tramite i suoi abitanti nella complessità delle loro vite, dandogli dignità. Lo scambio di battute tra Fabietto e il padre riguardo alla notizia della banca sull’acquisto di Maradona, le brutte maniere della signora Gentile, le folkloristiche apparizioni del Munaciello e San Gennaro a zia Patrizia, tutta questa pletora di personaggi fa sentire allo spettatore l’anima di Napoli. Il film riesce a dar voce sia all’immaginario locale (con icone sacre come Maradona o il munaciello), che all’intimismo autobiografico della famiglia di Fabietto. Ci sono occasionalmente vedute sceniche sui lati migliori della città (in primis il piano sequenza iniziale col drone sul golfo), ma finita la visione ciò che rimane di più nella memoria sono comunque le persone che la vivono. Il punto è proprio questo: c’è fin troppa Roma e Milano nel cinema e nella televisione italiana, dobbiamo dare più visibilità alle città più periferiche. Volendo ritornare al paragone con Fellini, anche la sua Roma (1972), non è una delle sue pellicole migliori, dove cercò di racchiudere una realtà grande e complessa in una serie di situazioni, senza soluzione di continuità; ma l’anno successivo riuscì nell’impresa spostando l’attenzione sui luoghi della Romagna dove crebbe. Guarda caso, il titolo stesso di Amarcord (1973), è diventato un neologismo per i ricordi dei luoghi a noi cari, e anche un cinefilo dell’epoca poteva ricordare gli inizi del regista con I Vitelloni (1953), ambientato in quei lidi. Dovremmo prendere come mantra il consiglio di Capuano a Fabietto: “Non ti disunire”. Non dovremmo disunirci dai luoghi in cui siamo nati, per quanto a volte ci maltrattino, sembrino ignorarci, sono comunque parte di noi e parte dell’Italia come nazione. Forse il cinema italiano dovrebbe ripartire da qui, forse l’invito a rimanere a Napoli del regista al protagonista è una dichiarazione d’intenti del film intero; e chissà, forse anche dei futuri progetti di Paolo Sorrentino...
Per il secondo appuntamento nella nostra rubrica F4 - basiti per il cinema, vi proponiamo un'analisi curata da Amerigo Biadaioli.
🎬Il Caso Mattei-Oltre il cinema inchiesta come appello ad una verità universale

🖖Analisi e approfondimento a cura di Amerigo Biadaioli

Film: Il Caso Mattei
Regista: Francesco Rosi

Non se lo ricorda quasi più nessuno, dopotutto siamo o non siamo nella terra della memoria dei pesci rossi? (sebbene non l’unica nel mondo). Eppure correva un tempo, nei lontani anni ’70, in cui i film venivano realizzati con altri fini, altre necessità; erano film molto duri, in simbiosi con i temi in cui erano più gli spari e le bombe che le parole a colpire a fondo il cuore dello spettatore. In questo conglomerato di necessità sociale, un regista è riuscito più di altri nell’impresa di fare film con ritmo, storie e cronaca; quel regista era Francesco Rosi. L’unicità di questo cineasta napoletano si ritrova soprattutto nella sua capacità di far capire alle persone che cosa era e cosa stava succedendo in Italia in quegli anni, senza vezzi, ma con grande efficacia ed eleganza, esperienza (allievo, aiuto regista di Visconti) ed efficacia. “Voglio che la gente sappia e capisca cosa sia successo.”

C’è stato un momento nella storia del cinema italiano in cui sembrava che un film non avesse senso di esistere, a meno che non contenesse un messaggio sociale, una denuncia, una rappresentazione fedele e spietata della realtà; insomma, un “impulso etico-politico” come lo definiva il critico Alberto Asor Rosa, capace di smuovere le coscienze. Il cinema di Rosi nasce dal frutto di una linea diretta con l’epoca che lo aveva preceduto, la sua accademia cinematografica era stata al fianco di Visconti. Il risultato fu stupefacente: il cinema di Rosi diviene il cinema dell’inchiesta, un genere che probabilmente oggi non ci sembra più così tanto raro da incontrare ma che invece fu una grande intuizione del regista napoletano.

Mai tema può essere più attuale. Gas, energia e quei maledetti intrighi internazionali. Quanto avremmo bisogno di un Enrico Mattei in questi tempi di guerra, anzi di genocidio.
Il progetto globale di “tragedia di stato” con echi universali emerge anche nel secondo film che vogliamo comparare alla storia del bandito siciliano: da una prima scelta radicale: il film si apre con l’omicidio di Giuliano, di come vediamo il corpo disteso del criminale nel cortile con faccia a terra Rosi racconta l’istanza di un altro corpo, che espande i propri interrogativi in più direzioni, e soprattutto, ancora una volta, avanti e indietro nel tempo. Il corpo che in questo caso non vediamo deceduto, è quello del presidente dell'ENI, Enrico Mattei, vittima, di un misterioso incidente aereo (che poi si rivelerà molto altro) assieme a lui morirono il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista statunitense William McHale della testata Time–Life, incaricato di scrivere un articolo su di lui.
Sempre con tale ricchezza di informazioni, a differenza di Giuliano, dove il protagonista non viene quasi mai inquadrato se non da disteso, ne “Il caso Mattei” Gian Maria Volonté presta volto, anima e corpo ad una diversa ma altrettanto misteriosa (fino ad un certo punto) vicenda italiana, dal sapore, o puzzo, internazionale. Come sempre, qualcosa di più grande coinvolge un paese spaurito e confuso come quello italiano.
Un film che incastra fiction a interviste reali, immagini d’archivio a sequenze nelle quali lo stesso Rosi interpreta sé stesso; un film che tenta un coraggioso quanto innovativo intreccio tra finzione e realtà, dove è difficile scorgere il confine tra i vari piani narrativi. Ne risulta un film dinamico e originale che coinvolge e trascina ma che, soprattutto, ci permette di comprendere in modo esaustivo le mille sfaccettature di un uomo su cui e attorno a cui ruota tutta la storia. Quindi come in Giuliano da un omicidio, a ritroso e tramite un montaggio che inchioda fino alla fine della visione, di flashback e interviste, Rosi ci coinvolge nella ricerca del disegno totale, moltiplicando i punti vista sviscerando il protagonista.
Nuovo appuntamento con la rubrica F4 - basiti per il cinema, questa volta con un approfondimento di Corrado Agnello.
🎬Maps To The Stars

🖖Approfondimento a cura di Corrado Agnello

Film: Maps To The Stars
Regista: David Cronenberg

In un'industria che si basa sulle apparenze e sulle illusioni più fantasiose, c'è davvero da meravigliarsi che ci siano così tanti film sul tema del complesso di inferiorità di Hollywood? Certo, Maps to the Stars è lontano da una produzione hollywoodiana, nonostante il suo talento di serie A. Non potrebbe mai esserlo, quando è così feroce nel suo attacco su più fronti a una comunità che copre l'abuso di narcotici da parte di adolescenti e l'incesto multigenerazionale.
Maps to the Stars costruisce una rete impressionante di vite spezzate e narcisisti auto-illusi di ogni estrazione sociale lungo Beverly Hills. Ci sono le stelle del cinema, sia giovani che "vecchie" (Evan Bird e Julianne Moore), così come i genitori parassiti che si nutrono dei loro vitelli d'oro (John Cusack e Olivia Williams). Ci sono i wannabes che cercano di entrare nel business mentre fanno da autisti alle celebrità (Robert Pattinson), e poi ci sono le persone misteriose - quelle che sembrano venire a Los Angeles solo per inseguire le stelle cadenti, come l'enigmatica Agatha (Mia Wasikowska).
Agatha apre il film come un'outsider che si integra all'interno del sistema con ridicola facilità. Questa è un'impresa particolarmente impressionante dato che per tutto il film le sue braccia e le sue mani sono completamente coperte da guanti neri a causa di una mistificante bruciatura della sua infanzia. Apparentemente non è abbastanza per impedirle di voler ballare con gli Dei del cinema, o almeno con i loro figli. Grazie ad una raccomandazione, Agatha si ritrova impiegata come assistente personale di Havana Segrand (Julianne Moore), una regale e sbiadita stella del cinema che desidera superare l'ombra della sua leggendaria madre defunta, Clarice Taggart (Sarah Gadon), una specie di Natalie Wood perduta da tempo con un oscuro segreto.
La probabile malevolenza di Clarice nel suo abuso di una giovane Havana si risveglia per tutto il film in sequenze vintage di Cronenberg, con il surrealismo che confina con l'orrore. In diverse scene, una Clarice spettrale infesta la mente e la camera da letto di Havana, anche se non abbastanza perché Havana possa evitare il remake di uno dei film più cari a sua madre. Ella brama di interpretare lo stesso ruolo della madre, una fissazione probabilmente esacerbata dal suo "terapista" opportunista. Il guru dell'auto-aiuto si chiama Stafford Weiss (John Cusack) e insieme alla sua terrificante moglie-madre di scena (Olivia Williams) gestisce il prossimo Justin Bieber, Benjie Weiss (Evan Bird).
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COSA VOGLIAMO FARE:
L’obiettivo primario di Rifilm è la costruzione di spazi di dialogo e partecipazione attraverso la condivisione di saperi, sfruttando le potenzialità dell’audiovisivo e del mezzo cinematografico.

La straordinaria risposta alla prima edizione ci ha mostrato che stiamo percorrendo la strada giusta: la costituzione di un circuito artistico-culturale democratico e partecipato non è solo un obiettivo auspicabile, ma anche raggiungibile. La nostra sarà pure una piccola risposta a una grandissima domanda, ma un altro mo(n)do di intendere la cultura è possibile solo se ognuno fa la sua parte.

Vogliamo fare di RiFilm un evento autonomo, che sia in grado di avere una voce nel variopinto panorama cinematografico della città di Bologna e, perché no, del nostro paese. Abbiamo visto che il progetto ha delle buone gambe. Vogliamo vedere se queste sono in grado di correre.

Per fare questo abbiamo bisogno più che mai del vostro aiuto.
Ben ritrovati per F4 - basiti per il cinema con Alice Gaglio.

🎬The Northman

🖖Recensione a cura di Alice Gaglio

Film: The Northman
Regista: Robert Eggers

Robert Eggers lascia nuovamente tutti a bocca aperta con il suo nuovo film action-fantasy dalle tinte horror “The Northman”. Ma forse, chi lo conosce bene, non è rimasto così sconvolto dalla sua recentissima pellicola appena uscita nelle sale.
Chi ha già visto “The Witch”, il suo film di debutto, e “The Lighthouse”, un altro recente piccolo capolavoro di regia, recitazione e colonna sonora, sa bene che ad Eggers piace giocare con la mitologia, le leggende e con gli spunti horror e stregoneschi. A mio personale parere, una scelta azzeccatissima, che si adatta alla sua vena artistica grottesca, macabra e dai rimandi romanticamente sublimi.
Con un protagonista come Aleskander Skarskard, in “The Northman”, Eggers ha optato per l’Amleto di Shakespeare: la storia narra del principe vichingo Amleth che, da bambino, assiste all’assassinio del padre da parte dello zio, ed è costretto a scappare da quest’ultimo per aver salva la vita, rinnegando le sue origini, lasciando all’uomo che gli ha tolto tutto persino il trono e la sua amata madre. Amleth cresce, e con lui cresce la sua rabbia, il suo furore, la sua sete di vendetta implacabile e consumante.
Nel film troviamo anche, nel ruolo di una schiava slava selvaggiamente sensuale, l’attrice Anya Taylor-Joy, la musa di Eggers. Grazie al suo aspetto angelico, raffinato e irriducibilmente femminile, Anya riesce sempre a suscitare una seduzione sinistra nello spettatore dei film di Eggers. Diverso è il caso del protagonista, un Alexander Skarsgard quanto mai brutale anche nel corpo, violento, massacrato, bestiale, un vero vichingo che ricorda moltissimo uno dei personaggi della famosa serie tv di Michael Hirst. Altri grandi nomi che amarete nei panni dei personaggi principali sono Ethan Hawke, magnetico e spaventoso nelle vesti del padre di Amleth, e l’immancabile altro volto molto presente nei film di Eggers, Willem Dafoe, lo stralunato e conturbante oracolo. L’unica che non ho trovato convincente è la celebre Nicole Kidman nei panni dell’ossessionante madre di Amleth, una regina straniera vedova, tremenda e incattivita, l’unico personaggio della pellicola che non invecchia mai, come se il tempo su di lei non avesse alcun effetto.
Ciò che ho apprezzato oltremodo del film, è l’evoluzione del personaggio di Amleth, il principe perduto, in tutta la sua spiazzante coerenza. Amleth viene cresciuto letteralmente come un lupo, un animale da caccia guidato dall’istinto, dalla carne, privo di razionalità e di controllo sugli appetiti. Questo è ciò che gli insegna suo padre, ad essere un guerriero privo di legami umani, libero dalle convenzioni e dalle catene della ragione. E anche quando il padre non c’è più, Amleth cresce come un lupo, sempre più lontano dall’umanità che invece sembra caratterizzare l’animo di suo zio, l’assassino e usurpatore, e di sua madre. Amleth, forse, se fosse stato cresciuto da suo zio, avrebbe raggiunto la felicità. Questo è il dubbio che Eggers fa sorgere nello spettatore nell’osservare la furia cieca di questo principe cresciuto tra le belve e privato di tutto quello che conosceva con la violenza, ritrovatosi a santificare ciò che ha perduto e inevitabilmente a condannare colui che lo ha strappato via dal suo mondo, costringendolo a scappare e a cambiare vita. Ma quando incontrerà Olga, una schiava slava che sarà in grado di amarlo anche nel suo lato più animalesco, l’animo di Amleth dimostrerà anche qualcos’altro, oltre alla pura e più brutale bestialità.
The Northman è un film visionario, come tutti i film di Eggers, dalla colonna sonora sublime, dalla fotografia eccezionale, dalla recitazione catartica e ipnotica, dai rimandi horror e mitologici e dalla regia impeccabile. Nulla da aggiungere a questa perla rara che rimarrà certamente incastonata nelle menti, almeno fino alla prossima “lucida visione” di cui Eggers ci farà dono nelle sale cinematografiche.